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Amici del Leonardo, questa mia pina non ha alcuna pretesa, diciamo così, scientifica. Il suo passaporto sta nelle idee stesse, anzi ne' sentimenti, che essa esprime, anzi suggerisce. Io non sono un paziente critico di concetti, un calmo estensore di categorie: di filosofia non so discorrere senza un acceleramento dei polsi, senza baccheggiare con l'anima, senza l'émpito e le smanie che Socrate pativa dalle Ninfe. La metafisica è incriticabile: ce l'ha ricordato anche ultimamente il Croce, l'uomo che voi ed io, tanto irrispettosi e sarcastici, rispettiamo e ammiriamo. Meglio così. Io, per queste mie quali che siasi variazioni metafisiche (senza tuttavia parer di fuggire innanzi ai vostri strali dialettici), vado ancora più in là: assegno loro valore e intenzione sinfonici: vorrei che la parola — malfida e pur divina parola! — non sì tosto scrittala io la cancellassi, la gittassi, perchè solo restasse «lo dolce che nacque da essa»; farmene veicolo e non carcere, impedirne l'istantanea gelata coagulazione in idolo, cioè in dogma. Che i santi spiriti di Carlyle e di Ruskin assistano e giustifichino il poeta per brev'ora filosofante!
Filosofante? Mi chiederete, cari amici, le mie generalità filosofiche. O più tosto no: la mia buona educazione esige ch'io le declini, anche perché, già che siamo a scandalizzare, in tre, i guardinghi filosofi professorali, vale la pena di andare in fondo. Voi vi definite, approssimativamente, i figli intellettuali di Berkeley e di Hume. Io definirei me stesso, nel senso più ampio dei tre vocaboli, un panteista, un mistico, e, epiteto che i cattedratici saldano col secondo dei due suddetti, uno scettico. A voi il prendermi o meno in parola. Adoro Platone più per quel che fece che per quel che volle: per la sua anima lirica più che per la teorica delle idee. Sono un innamorato incondizionato del Buddha Siddharta, le cui dottrine intorno la personalità umana (Karma, skanda) sono quanto di più profondo io sappia, e i cui discorsi mi sembrano la miglior guida pratica ad estinguere sé nel divino. Della filosofia tedesca simpatizzo a meraviglia con lo Schelling, malgrado l'intuizione intellettuale e le tenerezze mitologiche: per la sua religiosità, per il suo ritorno a Spinoza e a Bruno e pel suo conato titanico verso l'Uno. Ma più ancora simpatizzo con tutti i mistici di tutti i tempi: da Patandjali col suo Yoga e dal vedânta suo antagonista in Brahma, a San Bernardo e ad Ugo di San Vittore, al francescano Bonaventura e al vostro Meister Eckehart. Sono in ogni modo, rispetto all'Assoluto, non una loica scimmia che consegue la vetta dell'albero arrampicandosi di ramo in ramo, ma uno strano uccello che vi si cala dal grembo dei cieli con nelle ali l'umido dei culmini dell'atmosfera abitati dalle nuvole. E uccello vi gitto il mio qualsiasi canto.
Io vi amo e vi lodo, cari amici del Leonardo, perchè in mezzo a questa sedicente gioventù intellettuale italiana, alla maggior parte della quale mi sento non meno estraneo che ai vecchi ch'essa intende sostituire, rappresentate un caso abbastanza insolito ed isolato di serietà vivace e colta. Ma amo e lodo questa vostra diade filosofica sopratutto — stavo per dire: unicamente — nella parte distruttiva, demolitrice, prefissavi. E questo il maggior elogio ch'io possa fare a chiunque: genialità non è secondo me se non potenza distruttiva; conoscenza non è se non eliminazione: cultura non è passivo e torpido avveramento di documenti, ma l'impadronirsi di tutti gli idoli dei predecessori per romperli e negarli, ma il constatare per quali passi straripò lo spirito umano in persona di quei predecessori, per premunirsi, erigervi un buon argine e non passarvi più. Operata la demolizione, rasi al suolo gl'idoli, la deità e la verità, come una corrente d'aria pura su l'area d'una casa abbattuta, vi si ricostituiranno da sè stesse. Per questa medesima ragione io resto diffidente innanzi all'altra parte della vostra filosofia, ch'è ricostruzione e sovraposizione. Voi vi votate al giuoco eterno e ponete tra le notizie strabilianti il caso di due numeri del Leonardo che vadan d'accordo fra loro: pure siete strettamente d'accordo con voi stessi e ben ligi, sotto la vostra volubilità apparente, alla bandiera di «personalismo» che avete alberata fin dal primo numero. I volubili non sono se non dei costanti: costanti nella propria volubilità. E di codesto personalismo io vorrei dichiararmi non solo diffidente, ma aperto avversario, se non tenessi per vanità ogni antinomia e non avessi per fermo che i dualismi e gli antagonismi non sono in sostanza che il patrimonio degli imbecilli, e innanzi allo Spirito puro scompaiono. Mi limito quindi a trovare il vostro «personalismo» inutile in quanto lo enunciate teoreticamente, dannoso in quanto, traducendolo in filosofia pratica, ne deducete una morale individualistica della quale rifuggo come da tutte le cose limitate e circoscritte (essa è, tra l'altro, anti-cristiana contraddice per ciò al suo stesso punto di partenza teorico rinnegando il più formidabile Suggestíonatore che sia stato al mondo, a parte le raffazzonature tolstoiane, sincere, e la gran frode cattolica, insincera); e che oltre a ciò mi riesce insopportabilmente antipatica quando, spiccatasi da voi così fervidi e puri, va a ricongiungersi con tutta l'immondezza imperialistica ed egoistica in che sguazzano i figli spurii di Nietzsche, e che serve ad alcuni per due usi: fingere di avere un'idea, e commettere delle cattive -azioni.
E tal personalismo è quanto avete di più innegabilmente comune, tu, Gian Falco, più trascendente e malinconico, e tu, Giuliano il Sofista, più dialettico e più vivace. Perciò l'articolo del primo, Morte e resurrezione della filosofia, è un manifesto che ad entrambi conviene. Il mondo, le cose, dice Gian Falco, tendono alla cessazione di sè stesse (legge del finalismo suicida). Oh l'antico mito filosofico, o Gian Falco, del mondo condannato al Particolare e al Molteplice. - Zagreo fatto a brani dai Titani — ad espiazione d'una sua misteriosa colpa! Non forse il pensiero umano, sublimazione suprema della creazione ascendente per la scala degli esseri, rappresenta il perdono, nell'accordatagli possibilità di riconquistare, idealmente, l'Uno? Non sarebbe forse, il pensiero, un ritorno? Ma no: tu, temerario Lucifero, parli di contrastare alla tendenza del mondo «movendo verso il particolare e l'azione». «C'è il mondo?» chiedi. «No. Ci sono i mondi, più mondi, parecchi mondi per ciascun uomo». «Bisogna rassegnarci a fare una filosofia per ciascuno». «Non parleremo più di filosofia ma di filosofi, e non faremo la storia della dottrina ma la storia dei dottrinari», « Ed ecco capovolta » concludi «la vecchia filosofia». Direi, o Gian Falco, che hai invece capovolto lo stesso Spirito umano, la Natura stessa.
Nello stesso numero, in un suo delizioso articolo, afferma Giuliano il Sofista: «La classica filosofia cessa, per far posto alle filosofie, anzi ai filosofi. Non c'è più un razionalismo, ma c'è Cartesio; non più un idealismo, ma Berkeley; non materialismo, ma Moleschott.... Non ci furono, non ci sono, e non ci saranno che soli individui; non sistemi, non scuole, ma soltanto filosofi.» E, più su: «La filosofia ha due aspetti, o meglio due momenti: uno superficiale, dogmatico e formalistico, come la crosta grigia e sozza di un metallo che fonde; è il momento della espressione, della fissazione delle idee, dell'accademismo: e anche il momento che lascia una traccia netta e precisa, tangibile e classificabile. L'altro momento profondo, vivo e scorrente come la massa in ebullizione del metallo che sta sotto la crosta, è il momento della formazione delle idee, è l'ebrezza della creazione, è il sentimento generatore; ed è anche il momento più fuggevole, che bisogna scoprire sotto la formula e sotto il libro, interrogando l'uomo e dimenticando l'autore». Egregiamente, caro Giuliano. Solamente, ti domanderò a che riferisci, in che trovi l'origine di questi due momenti o aspetti. Il secondo, quello vivente e puro, io lo identifico con l'atto in cui l'io si perde nell'Assoluto, si confonde con l'eterno l'infinito e l'immutabile, s'annienta in Dio; il primo in vece, rappresenta per me il riflusso dell'io nella prigione di sè stesso (San Bernardo), il rapido raggelamento idolatra. Come il nostro occhio, se fissa cosa abbagliante, riportando sùbito lo sguardo su gli oggetti oscuri rivede più volte, prima di tornare allo stato abituale, sovr'essi quello abbagliante: così l'Io, abbacinato un istante dal sentimento dell'Assoluto, lo rivede ne' pensieri suoi sempre affievolentesi; e crea un sistema di filosofia. (Ed è spesso, come sapete, codesto Assoluto il genio maligno dei filosofi; novo Puck, egli impedisce ben sovente al lor latte razionale di cagliare: che, rilampeggiando improvviso ad essi quando credevan d'avere aggiustati i loro conti col proprio sistema, li mette in contradizione con tutto il pensato, il dedotto, l'architettato nell'intervallo tra l'un baleno e l'altro: a madama Dialettica poi il còmpito di conciliare; a' successori quello di scovrir la magagna.) Il momento dunque accademico e impuro rappresenta esso appunto il ritorno al personale, al singolare, al parziale, all'uomo: e in tal modo penserò, finchè al meno tu non mi avrai detto con che lo spieghi, e con che identifichi l'altro. La mia malignità vuole in oltre osservarvi, così di volo, che data e non concessa la legittimità del parziale e dell'individuale come oggetto della filosofia, voi paralizzerete ogni filosofo a cui la proporrete: perché egli in tanto si fa filosofo, in quanto ritiene la sua visione — com'essa è di fatto, sempre, inizialmente — assoluta e obiettiva e definitiva.
Ma nel culto del parziale, dell'individuale, del frammentario, non siete oggi soli. Voi, audacemente, li assegnate a dirittura come fine alla filosofia: Benedetto Croce sotto altro punto di vista (ma il mio demone metafisico astrae dai punti di vista) li assegna all'arte. Sapete già come nella sua Estetica, il più nobile e vital libro di filosofia apparso in questi ultimi anni, il gran semplificatore ch'è Benedetto Croce, riducendo l'attività teoretica a intuizioni e concetti, — ricorderete che Kant avea riposto nelle prime (Anschaungen) la materia del conoscere, nei secondi (Begriffe) la forma — li scinde nettamente: alle une assegna per oggetto il fenomeno, agli altri il noumeno, alle une l'Arte, agli altri la scienza, la Filosofia: e connettendo intimamente all'intuizione l'espressione ne deduce la sua estetica formalista. Sapete come dalla triade dello spirito assoluto, che l'Hegel graduava in Arte Religione Filosofia, egli esilii la seconda — nella quale, secondo esso Hegel, «lo spirito assoluto, non più astratto momento di sè, manifesta sè stesso» — per ridurla a una rozza conoscenza dei tempi primitivi e ad un pleonasmo in quelli più progrediti. L'arte dunque resta forma, resta nel mondo fenomenico, resta, pel Croce, il prodotto d'un'intensificazione dell'intuizione che avviene nella coscienza dell'artista: vive, in una parola, dell'individuale e del frammento.
Così il lucido tesaurizzatore e sintetista teorico del pensiero di Francesco De Sanctis. Ora, per me, l'oggetto dell'arte non è l'individuale in quanto tale, perchè allora non ci sarebbe nessuna differenza tra l'arte e le rappresentazioni che non sono arte, tra il racconto che un qualsiasi uomo può farci, p. es., d'un amore, e il poeta che ci rappresenta anch'esso un amore. L'individuale in tanto ha valore per l'arte in quanto esso è realizzazione, sensibilizzazione dell'Assoluto e dell'universale: la creatura dell'arte è la creatura riferita dall'estro, dall'attimo mistico dell'artista all'universalità delle creature cioè a Dio. La rappresentazione intensificata è secondo me l'allucinazione del nevrastenico, non è l'arte.
Amici, ma fino a qual segno io possa consentire con voi e col Croce, lascio a voi misurare: io alla cui commossa anima vedica orfica e francescana il mondo appare sempre più un meraviglioso tempio pieno di santità, che mentre è il tempio è tuttavia il dio e la preghiera, è l'amato ed è l'amore: io a cui, sedendo su le calcagna nel mezzo di questo tempio che sempre sta e pure incessantemente trapassa, è gioia addormentare indefinitamente la mia poca umanità e svegliarmi a un tempo oltre. il suo sogno breve, svegliarmi all'Indifferenza che per tutto l'universo nasce e muore, ed è in sè sempre la stessa. E svolgere in questo oblio il mio infinito inno dell' Uno.
Dice il mio inno: Due facce ha la medaglia della Natura, un flusso e un riflusso il mare del perpetuo Divenire: l'Individuazione e la Disindividuazione. L'Individuo e molteplice è come la nube aerea in cui l'invisibile vapore acqueo diffuso per l'atmosfera si fa visibile; come il numeroso fogliame pel cui mezzo il segreto e il silenzio dell'albero parlano. Individuarsi e disindividuarsi non sono un antagonismo: sono una vicenda e un'alternazione; compiutasi l'una tende incessantemente verso l'altra.
Ricordate il cantico a Brahma, nel Coumara-Sambhava di Kâlidasa?
«Ineffabile androgine, tu hai bipartita la tua forma pel desio di creare: il fecondante e il fecondato: le tue due porzioni. È ciò che si chiama il padre e la madre dell'universo, che prende parte egli stesso alla propria generazione.
«Hai diviso il giorno e la notte con la misura del tuo tempo: poichè la tua veglia e il tuo sonno son la nascita e la morte delle creature.
«Da te stesso ti conosci, da te stesso ti crei; quando la tua opera, il mondo, è giunta alla sua fine, tu ti risolvi in te stesso.
«Anima universale, impassibile, impassionata, onniveggente!»
Sèguita il mio inno: In vano l'individuo, in quanto pensiero e in quanto soggetto, ingannato dal suo inconscio anelare all'impersonale, cerca la nozione razionale dell'Assoluto. Può la nube, può l'onda, può ciò ch'è accidente e oscillazione dell'Essere, misurare da sè stesso il vapore invisibile, il mare, l'Essere indifferente e incommutabile? La tragedia del pensiero sta nel demone dell'Antropomorfismo. Per esso il filosofo ingiuria la Parola, alato angelo nell'istante della divina assunzione, perfida cortigiana nell'amletico ricadere verso la riflessione. Da esso l'inguaribile follia della personalità umana che, proiettando sè stessa fin oltre la sua palpabile distruzione, si spera ancora esistente dopo il proprio annientamento, e sogna di coerir tuttora dopo la sua dissoluzione, dandosi per questa favola la pena di sdoppiarsi in materia e spirito e inventando la grottesca leggenda del proprio perfezionamento a traverso i mondi e le vite. Da esso ancora la ricerca vana della finalità del mondo, l'inutile interrogativo teleologico.
IL RAGGIUNGIMENTO DELL' ASSOLUTO CONSISTE NEL DESIDERIO DELL'ASSOLUTO: nell'istante stesso d'esso desiderio, quando l'Individuo librandosi al confine della propria sfera di gravità s'affaccia su l'eterno e su Dio. Atto intellettuale, o affettivo? Visione estatica e unione serafica: momento in cui di continuo ringiovanisce, e si riconsacra dalla profanazione dell'Individuale, la Trimurti paradisiaca di Religione Arte Filosofia; in cui l'uomo torna sicut parvulus e si dimentica. Non quindi individuale, essa è in vece graduale rispetto alla sua iterazione e coscienza di sè, rispetto agli uomini ed ai cicli della loro storia. E oltre la ragione; se fosse razionale, conquisa una volta, il godimento non si ripeterebbe ad ogni nuova trasmigrazione e sarebbe inutile il succedersi, nei secoli, degli Eroi che sono i suoi sacerdoti.
La triade Religione-Arte-Filosofia sussiste solo dal punto di vista dell'umanità; più accentuata a chi più basso è graduato rispetto al divino. Secondo le proprie tendenze affettive o intellettive, colui che dopo la visione serafica ripiomba in sè stesso, si fa artista o filosofo: ma colui la cui voce non risuona se non per annunziare il desiderio e il raggiungimento del dio, ma il Genio nella sua astratta genuinità, quegli che apre la serie e la scala degli adoranti, è un Artista-Filosofo (il carattere di religiosità, quand'anche sottinteso, è palese e immanente in tutta l'opera sua). L'artista in quanto artista compie, inconsciamente, l'atto estatico; il filosofo in quanto filosofo lo enunzia: il Genio lo compie e lo enunzia insieme. Contemplatelo nella sua immediata incarnazione umana: egli è il poeta fantasioso del Rig-Veda, il cui primo passo alla conoscenza è preghiera e canto (della filosofia che nasce indissolubilmente congiunta alla poesia stanno anche come esempi, nei suoi incunaboli, il Sânkhya Karikâ che svela i filosofemi di Kapila; Sankara che ritma il vedânta; Orfeo; i poeti gnomici). È Platone cui son parola l'orgia lirica e il mito inesauribile. È il titano suicida Lucrezio, che, perchè poeta-filosofo, rappresenta il più originale artista della latinità. È Cristo imaginoso e comunicativo, la cui forza son le parabole. È l'uomo-dio rappresentativo di nostra gente, l'adorabile volto ansioso e macro che dal profondo del secolo decimoquarto s'affila nelle cose unificate in Dio; quel Dante a cui la scolastica fu linguaggio come il volgare e la terzina, e baciata dalla poesia cessa d'essere scolastica per divenire il più grande il più vero il più inconfutabile sistema filosofico, al quale voi credete senza raderne sillaba. È ancora Shakespeare e Goethe, Leonardo e Wagner, Shelley e Leopardi....
Tale il mio inno: non in tutto nuovo, certo; son forse nuove le parole commiste ab aeterno con la coscienza del cosmo?: ma rinnovantesi nella mia fede e nella mia meraviglia. Ed io lo chiudo presentando in offerta ad Ahura-Mazda, al constitutore di tutte le cose, come l'innografo dell'Avesta, il principio vitale di me medesimo. Ma tu, Gian Falco, sorridi forse, e gridi come nella chiusa del tuo articolo sul Buddha — Difendete il vostro Io! — Divitias miseras, o mio Gian Falco! Divinizziamolo e amplifichiamolo (d'accordo, non è vero ?) quest'Io: a tal fine neghiamolo nell'Assoluto, come gli Eroi. Forse pure tu, o Giuliano il Sofista, ma più caustico e più sarcastico, sorridi; ed aspetti la fine della mia canzone metafisica per dirmi, come al divo ateniese il beffardo amico nel volteriano «Sogno di Platone»: Et puis vous vous réveillâtes.
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